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Kufu-e Sesshin ovvero Sesshin di lavoro

L’esercizio di riflettere su quanto facciamo e sui termini che usiamo per esprimerlo è sempre utile. Mi cimenterò, perciò, con l’esame dei termini che compongono il titolo di questo incontro e sul loro significato per me.
Con quanto segue mi auguro di fornire, più che risposte preconfezionate, alcuni spunti di pensiero da elaborare.
Allora iniziamo.
Che significa lavoro? Che significa Sesshin?
E cosa c’entra tutto questo con lo Shiatsu Ryu Zo e con la formazione di Insegnanti ed Istruttori? Sesshin è composto da due ideogrammi: 接心. Il primo 接, come ogni ideogramma, può avere diverse traduzioni: toccare, unire, collegare. Il secondo ideogramma 心 significa: cuore, mente, spirito.
Risulta chiaro come il significato fondamentale di Sesshin sia mettere insieme, connettere con se stessi e contemporaneamente con gli altri, ciò che possiamo chiamare il “nucleo fondamentale” di ciascuno.
Però, dovessi rendere con due parole l’esperienza del Sesshin, quella per prima sorta alla mente sarebbe: ritiro. Ritiro dalle idee del e sul mondo, la mente e i comportamenti ordinari. Ritiro al proprio interno tramite la pratica dell’esterno, per incontrarsi incontrando. La seconda parola sarebbe ritorno: ritorno allo studio della presenza che ci vive oltre il nostro personale giudizio. Tutto ciò si trova contenuto in precisi contesti storici e dottrinali che provengono dalla Tradizione Zen Soto. Se non si è guidati da un insegnante che garantisca la trasmissione dei modi tradizionali, si rientra in una diversa modalità di pratica che attiene alla discrezione individuale. Non si tratta di giusto o sbagliato. Semplicemente è altro. La tradizione comporta modalità elaborate nei secoli e nelle generazioni. Certamente, anche con tutto questo, occorre fare i conti come individui. Però, prima di applicare trasformazioni o elaborazioni occorre aver praticato a fondo. Allora, ciò che si esprime potrà anche apparire come novità ma rispetterà profondamente senso e cuore di quanto ricevuto. In questo campo superficialità e improvvisazione non sono ammessi.
Nello Shiatsu Ryu Zo, con un atto di presunzione, è stata introdotta la pratica dello Za Zen, ritenendo che ciò che era stata una risorsa per me, lo fosse per chiunque. La presunzione non è consistita tanto in questo, quanto nel credere che la scelta di introdurre e praticare lo Za Zen fosse trasmissibile in automatico con la decisione di studiare o insegnare Shiatsu Ryu Zo. Tuttavia, la presunzione non è per forza malvagia, se è accompagnata da un sincero sforzo di approfondimento.
Ad oggi, però, sto riflettendo riguardo il trasformare il momento dedicato allo Za Zen, che precede la lezione di Shiatsu Ryu Zo, in un “mokuso”.
Gli ideogrammi che compongono questa parola richiamano il silenzio, il tacere e il pensare.
Perciò “pensare il silenzio” o “il silenzio del pensiero”.
La differenza è che quando pratichiamo Za Zen ci rifacciamo ad una precisa tradizione, mentre il “mokuso” è una pratica più informale e non connotata religiosamente.
Ma questo è un altro argomento riguardo al quale occorrerà ricercare e dibattere.
Tornando allo studio delle parole, se ci si riferisce al significato comunemente attribuito al lavoro, ben poco sembrerebbe centrare con il Sesshin.
Il lavoro è oggi associato in maniera automatica alla categoria del “guadagno” e perciò anche alla “perdita”. Che la si intenda in termini economici o di “realizzazione personale” poco importa.
Si resta sempre nel aumentare o diminuire.
Queste categorie hanno poco a che vedere con una dimensione che precede guadagno o perdita, accumulo o diminuzione, avanzamento o arretramento. Il Sesshin attinge ad un’altra misura, non esprimibile su questo piano, sebbene vi partecipi e lo attraversi. Nel Sesshin si trova una dimensione di dono, di gratuità, di libertà anche da sé, che prescinde dai dualismi inerenti alla perdita o al guadagno. Questo ha a che vedere con quella che, nello Zen, viene definita Bodaishin o “Natura di Buddha” e della quale la Sesshin è studio e manifestazione.
In questi termini allora sembrerebbe apparire una insanabile contraddizione tra il lavoro inteso come guadagno e il Sesshin inteso come gratuità. Quindi l’uso di queste parole accostate sembrerebbe scorretto o almeno impreciso,
Esistono, però, altre maniere di vedere il lavoro.
Intanto nel Sesshin il lavoro esiste, eccome. Sia che si tratti del “samu” o dell’esercizio del Tenzo in cucina, di servire i pasti o di allestire e disallestire il Dojo, di cucire un Kesa o di studiare un Sutra, certamente non è solo questione di stare seduti su un cuscino. Quello che cambia rispetto al lavoro ordinario è l’atteggiamento. Ad esempio: nel Sesshin il lavoro non è retribuito in denaro, perciò siamo di fronte ancora alla gratuità, poi le attività vanno esercitate in accordo, in armonia in coordinazione con tutti gli altri partecipanti e non in maniera individualista, inoltre si cerca di mantenere l’attitudine di concentrazione, di presenza, di cura proprie dello Za Zen.
In realtà il Sesshin va intriso di queste attitudini qualunque cosa si faccia, che si sia seduti, camminando, riposando, si lavori, si studi, ci si lavi o ci si cibi. In questo modo oggetto di studio diviene la vita quotidiana ed il suo dipanarsi. Il Sesshin è solo il momento più dedicato a tutto ciò ma l’idea di fondo è che questa attitudine si estenda alla vita quotidiana. Questo richiede esercizio. Non è solo questione di sforzarsi (per quanto sia necessario), quanto di esercitarsi fino a che queste attitudini diventino spontanee senza necessità di pensarle troppo.
In questo senso, per accedere alla profondità dell’esperienza, la ripetizione è fondamentale. Tornando ora al lavoro, ci si può chiedere: la attitudini del lavoro svolto in un Sesshin sono declinabili solo in questo ambito o anche nella vita “ordinaria”?
Può il lavoro ordinario essere gratuito? Certamente no. Anche il volontariato ha una sua forma di retribuzione (morale, emotiva, pubblici riconoscimenti, ecc..). Il lavoro poi serve per definizione a guadagnarsi uno spazio sociale ed economico, anche se oggi questi aspetti vanno sempre più rarefacendosi. Esiste però la possibilità di lavorare esprimendo una qualità, un plus di capacità e competenza che non si riduce alla somma o alla notorietà guadagnate. Mi riferisco al “lavoro fatto bene” che va oltre allo standard richiesto in denaro, ma si rivolge all’espressione del proprio valore come esseri umani che riconoscono il valore degli altri esseri (umani e non) per i quali lavorano.
Si torna, con questo, alla Bodaishin. Sia ben chiaro che questo valore precede la sua espressione e non ne è determinato. In questione è solo la capacità di esprimerlo. Voglio dire che nel lavoro esiste la possibilità, nonostante si percepisca un compenso, di esprimere un “plus” che non è oggettivabile e riducibile al denaro medesimo.
Qui si apre un’altra questione, ovvero se ciò sia possibile in qualunque tipo di lavoro. Sono convinto di no. Ritengo vi siano lavori che per le condizioni nelle quali si opera, siano solo brutali vie di distruzione degli esserei umani e spesso anche di altri esseri. Se però si ha la fortuna o l’abilità di trovarsi in altre e più favorevoli condizioni, per il rispetto dovuto a se stessi e agli altri, direi che si ha il dovere, l’obbligo di tentare l’espressione di quel “plus”.
Ritengo lo Shiatsu Ryu Zo sia uno di questi tipi di lavoro, un lavoro nel quale cioè per esprimere la propria natura profonda, vi siano condizioni favorevoli. Si può aiutare gli altri a recuperare la propria centratura mantenendo la propria. Il compenso in denaro che si riceve per questo è solo una piccola parte di altri compensi che si realizzano in termini di conoscenza di sé, di conoscenza della vita degli altri e di uso bilanciato di corpo e mente. Questo vale anche per l’insegnamento e la trasmissione dello Shiatsu Ryu Zo.
Ma, occorre anche chiedersi, quando si insegna lo Shiatsu Ryu Zo si tratta solo di insegnare un complesso elenco di movimenti. posizioni, pressioni, punti, canali, stretching, muscoli, ossa e nozioni simili? Si tratta della quantità e qualità delle nozioni o vi sono anche altri riferimenti? Per un Insegnante di Shiatsu Ryu Zo, pensare ad un essere umano significa pensare a che? Un ammasso di quantità? Un insieme di capacità, di potenzialità e di aspirazioni? Tutto questo insieme e altro ancora? Per rispondere a queste domande lo Shiatsu (anche Ryu Zo) non è sufficiente. Namikoshi, con un abile stratagemma se la è cavata rifacendosi alla scienza occidentale. Masunaga, viceversa, ha recuperato la Tradizione Medica di Cina e Giappone che a loro volta attingono a Taoismo, Buddismo e Confucianesimo. Nello Shiatsu Ryu Zo usiamo questi riferimenti e anche il Cristianesimo. Nello Shiatsu Ryu Zo l’essere umano è visto come un nobile spodestato che necessita di riguadagnare la propria posizione tramite l’esercizio della virtù (intesa non solo in senso morale ma secondo l’etimo che le è proprio ovvero valore, energia, coraggio) nel perseguire i mezzi che lo possono riportare alla posizione che merita. Ricordo le “Quatto Nobili Verità” proclamate dal Buddha per la liberazione dalla sofferenza, o la “Virtù del Cielo” del Tao Te Ching, le Virtù Teologali del Cristianesimo (Fede, Speranza, Carità) e quelle Cardinali (Temperanza, Coraggio, Saggezza, Giustizia) così chiamate da S. Ambrogio ma già definite da Platone nella Repubblica. Da sempre gli esseri umani hanno delineato comportamenti e orizzonti che li guidino nella loro esistenza. L’insegnate di Shiatsu Ryu Zo non deve sostituirsi né al sacerdote, né al filosofo, né allo psicologo.
Nell’insegnare la tecnica propria a quest’arte, deve però essere consapevole che si tratta di vivere l’entusiasmo (dal greco ἐνθουσιάζω «essere ispirato», da ἔνθεος, comp. di ἐν «in» e θεός «dio») del comunicare un mezzo prezioso di contatto e cura di se e degli gli altri.
Come fare questo? Il primo gradino lo si sale costruendo il contenitore, la forma che poi dovrà accogliere il contenuto. La parola giapponese Kata rimanda al concetto di “forma”, mentre la parola Istruttore ha la propria radice nel verbo latino “struo” che significa costruire. Quindi il ruolo degli Insegnanti (dal latino: mostrare l’insegna, la bandiera) quando formano Istruttori è di assicurarsi che essi sappiano disporre correttamente la fondamenta (Kata) ma lo facciano con “entusiasmo”. Delle due cose, la seconda è di gran lunga più difficile. Mentre del Kata possiamo studiarne la tecnica, la sola trasmissione efficace dell’entusiasmo che conosca, è il contagio diretto.
Resta da precisare un ulteriore punto.
Gli elementi che abbiamo delineato nel Kata (forma, procedura, ordine, sequenza) sono in gran parte coincidenti con quelli che compongono il rito. L’etimo di questa parola (dal lat. ritus -us, affine al gr. ἀριθμός «numero» e al sanscr. ṛtá- «misurato» e come s. neutro «ordine stabilito dagli dèi») rimanda a misura, ordine, numero. Naturalmente un rito religioso non è solo questo poiché richiede un sistema di credenze all’interno del quale acquisisce il proprio senso pieno. Ecco perché enucleare parti di tradizioni e utilizzarle nel mercatino della new-age non solo riduce ed impoverisce, ma alla lunga diviene anche pericoloso.
Quanto voglio sottolineare è che la sfera del sacro compete ad ogni essere umano, che ne sia consapevole o meno. Senza che si effettui un vero e proprio rito, quando però si lavori secondo i codici sopra accennati, sicuramente siamo nella sfera delle cose che si definiscono importanti, sacre, per le quali vale la pena vivere o morire. Nella cura e nella guarigione, nell’affidarsi a qualcun altro per ricevere sostegno e attenzione, è facile entrare in questo territorio.
Occorre conoscere i mezzi per entrarvi, attraversarlo per poi uscirne.
L’accurato insegnamento di Kata dello Shiatsu Ryu Zo e delle loro origini fornisce questi mezzi. Quel che non può fornire è l’entusiasmo.
Scoprire come viverlo, contagiando i futuri Istruttori e perciò formandoli, sia compito di ogni Insegnante che desideri sinceramente divenire Formatore.

— Aldo Doshin Shinnosukè Ricciotti