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Essere o vivere – Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti

A volte, scrivere dello conoscenza assomiglia al tentativo di definire la forma dell’acqua. Essa non ne ha poiché assume quella del recipiente che la contiene. Allora occorre esaminare il contenitore oltre al contenuto. Francois Julien, in questo libro, aiuta a comprendere quale siano le forme di due “pensieri/linguaggi”, quello cinese e quello occidentale, al fine di illuminare la conoscenza in essi contenuta.

Questo studioso presenta un non comune percorso di formazione accademica. Dopo essersi laureato in filosofia con studi sul mondo greco, si accorge che la sua riflessione si trova ad un punto morto, in assenza di un confronto con un approccio culturale completamente diverso da quello che conosce. Questo lo porta a confrontarsi con il mondo cinese. Decide perciò di apprendere quella lingua e trascorre qualche anno in Cina. Affronta poi il vasto campo della sinologia trascorrendo anche alcuni anni in Giappone per approfondirne gli studi. Durante questo percorso egli non abbandona la riflessione filosofica che lo ha mosso. In estrema sintesi, si trova alla ricerca di un punto di scarto che possa portare al di fuori di come la filosofia occidentale ha riflettuto fino ad oggi. In particolare lo interessa provare a trovare risorse che consentano di pensare in assenza di categorie come l’essere o il soggetto. Nel libro qui in esame, si trova una corposa ma accessibile raccolta di questo percorso. Attraverso venti contrasti l’autore descrive gli “scarti” e perciò le “risorse” da lui reperite tra il pensiero occidentale e cinese.

Il libro non è facilmente condensabile senza correre il rischio di impoverirne il pensiero e la ricerca che rappresenta. Ho scelto perciò di descrivere solo alcuni capitoli che mi sono apparsi particolarmente suggestivi per suscitare, almeno in parte, la curiosità e l’interesse che merita questa opera. Il primo si intitola: Propensione vs Causalità.

Per la formazione ricevuta negli studi e per il funzionamento della società nella quale viviamo, risulta del tutto naturale riflettere in termini di causa/effetto, separando però così la situazione dalla sua evoluzione e evitando di cogliere come l’evento si configuri già nella sua struttura.

Discutendo della traduzione del termine cinese “shi”, spesso tradotto come “situazione”, “evoluzione” o “corso delle cose” o “condizione” l’autore propone invece il termine “propensione”. Egli scrive: ” in propensione… capiamo che le cose non “sono” ma che “propendono”… le cose sotto il loro peso (pendere), non cessano di oscillare… e di produrre il loro avvenire attraverso questo slancio e questo trascinamento…non sono mai un ente ma una pendenza. Il mondo non è fatto che da questo, dal fatto che tutto sempre,” si inclina” in avanti… – pro-pendere-producendo il rinnovamento”. Perciò se in termini di causa/effetto conoscere significa conoscere le cause, in termini di “propensione” conoscere diviene discernere fasi e tappe in modo che la mutazione futura sia percepita già in opera in quella presente in termini di lineamenti (nozione di xiang).

Con questi riferimenti anche la “libertà” intesa come causa sui (causa in sé) va rivisitata. “Nel momento in cui si comincia a pensare non più in termini di Essere (o di azione) isolabile… la questione diviene : come promuovere e qualificare questo “a monte” del comportamento dal quale poi deriverà per propensione la moralità ( e la libertà) della mia condotta?”

Il terzo capitolo, Disponibilità vs Libertà, approfondisce tutto ciò. “In Cina… il conoscere non è tanto farsi un’idea di, quanto rendersi disponibile a (Xunzi capitolo “Jiebi”)… Bisogna evitare di lasciare che la propria mente divenga una mente “avvenuta” (cheng xin)”. Il pensiero occidentale fatica a servirsene della disponibilità intesa in questo senso. L’Europa ha misconosciuto la risorsa della disponibilità perché ha sviluppato un pensiero della libertà e per la Cina vale l’inverso. Il contrario della libertà è la servitù, non la disponibilità. Si ricordi che la” libertà” (eleutheria) per il mondo greco riguardava il non essere nati schiavi, non essere dominati dallo straniero (si pensi alle guerre persiane), non essere sottomessi a un tiranno. La riflessione sulla libertà ha poi preso direzioni diverse, accompagnandosi a quella sull’individuo. “La disponibilità è piuttosto sviluppare un rapporto armonioso con l’ordine delle cose, non d’emancipazione ma di integrazione. Invece di staccarci e renderci autonomi dal corso delle cose, ci inseriamo in esso per sfruttarne le risorse senza contrapporci inutilmente”. “Per questa ragione la Cina ha concepito non l’effrazione e la dis-alienazione del soggetto attraverso la libertà, ma quella capacità (disponibilità) che, aprendo la strada da tute le parti senza bloccarsi in nessuna di esse, tenendo tutti i possibili nella eguaglianza, mantiene il soggetto vuoto (non tetico) e lo mette in fase con ciò che gli giunge dal mondo così che egli si affidi originariamente al mondo”.

Nel capitolo sedici, Ambiguo vs Equivoco, si trova poi una definizione del pensare che ho trovato veramente illuminante. Pensare significa: “espellere l’equivoco e al contempo esplorare l’ambiguo”. In fondo, sostiene Julien, la filosofia occidentale può proprio essere vista come il tentativo di espellere l’equivoco dal linguaggio. Contro i sofisti e la loro strategia di assumere nel corso di uno stesso ragionamento la stessa parola con significati diversi, Aristotele fissa nel compito della parola quello di dire qualcosa di “uno”, univoco, per dirigere il pensiero verso la stessa cosa ed intendersi, invece di dirigerlo verso cose diverse e fra-intendersi. Dunque le parole sono determinazioni dell’Essere, perciò occorre bandirne l’equivocità e fare chiarezza. Però questo sforzo di precisione inciampa proprio nel significato della parola “Essere” che vedrà la filosofia successiva esplorare posizioni anche molte diverse. Platone era scampato al pericolo di questa trappola introducendo il concetto di “mescolanza”. Nel soggetto ci sono contraddizioni ma l’uno si trova con l’altro senza essere anche l’altro, ciascuno si mantiene di fronte all’altro nella propria identità. I due opposti coesistono senza separarsi dal loro rispettivo “in sé”. Quando sono assetato e bevo provo contemporaneamente la sofferenza di avere sete e il piacere di placarla (Gorgia, 496e)”. In occidente, trova Julien, solo Eraclito e Nietzsche hanno esplorato il versante dell’ambiguo. Nietzsche (Al di la del bene del male, I 1) nota una “parentela” e “una identità di essenza” tra contrari (wesensgleich). Eraclito chiama il Dio “giorno-notte, guerra-pace (frammento 67)”. La Cina, invece, ha saputo riconoscere “questo fondo indifferenziato di tutte le differenze, questo (s)fondo di dis-esclusione, è ciò che il pensiero cinese chiama più comunemente tao… Tra le distinzioni da fare attraverso la mia parola e le distinzioni da disfare nel linguaggio, il pensiero/la parola, mantenendosi al lavoro, in attività, non si lascerà più prendere in trappola né dalla parola, né dal silenzio: il pensiero non finirà più per essere un gioco di parole che sfigurano il pensabile né cederà al silenzio che non pensa più.” “Contro ogni rivendicazione di chiarezza e distinzione, il tao non può essere qualificato che dal “flusso”, dal “vago” e dall’”indistinto”; per questo è evasivo… bisogna saper accedere ad una parola che “dice appena ”xi yan”, che si trattiene dal determinare, che rimane sul margine dell’enunciazione e resta allusiva”. Non solo i testi taoisti mostreranno questa capacità. Anche Confucio, Mencio e altri classici cinesi l’hanno grandemente applicata.

Altri capitoli portano titoli quali: Obliquità vs Frontalità, Sbieco vs Metodo, Influenza vs Persuasione, Regolazione vs Rivelazione, Risorsa vs Verità.

Ritengo questo testo imperdibile per chi si occupi, a vario titolo, della cultura estremo orientale ove siano in uso gli ideogrammi. Molto di quanto esposto, anche se con alcune differenze, potrebbe essere esteso anche verso il Giappone. Le culture che adottano la scrittura ideogrammatica offrono problemi di interpretazione che questo testo ben affronta. Accontentarsi delle traduzioni rischia di irrigidire l’interpretazione di un sapere che, proprio per le modalità espressive, è sempre multiforme e mai univoco. Nel rispetto di ciò, il limite del testo, ma anche la grandezza, sta nel non offrire “soluzioni”. Indica piuttosto un metodo lasciando aperto l’esito della sua applicazione.

Concludo con una indicazione ed una riflessione. La prima riguarda altri due testi di Francois Julien, molto più accessibili, in qualche modo più pratici: Quella strana idea di bello (il concetto di bello tra Cina ed Occidente) per Il Mulino e Pensare l’efficacia in Cina ed in Occidente per Laterza.
La seconda riguarda quel fenomeno che fu la traduzione del Canone Buddista dal sanscrito al cinese. Possiamo solo lontanamente immaginare la complessità di quell’enorme lavoro?
Per fortuna lo Zen, senza trascurare ne esaurirsi in scritti e parole, si trasmette nel “saper fare come”. Ma, dal momento che fosse necessario scrivere, raccontare e/o interpretare qualcosa di quel “saper fare come”, allora i riferimenti forniti da Julien si rivelerebbero davvero utili.